Rock On Light part 2: Anathema - Weather Systems (2012), Dinamismo ed emotività
La nona fatica del gruppo inglese capitanato dai fratelli Cavanagh continua sulla strada già intrapresa con il precedente We’re Here Because We’re Here. Perché sì, abbiamo ancora a che fare con atmosfere calde, progressioni sonore (a onor del vero non troppo audaci, ma pur sempre d’effetto) che sfociano in roboanti palle di suono, melodie sui generis che non risultano neppure troppo complesse. Eppure è innegabile che qualcosa di nuovo stia facendo timidamente capolino. Perchè qui la solarità, le atmosfere calde e avvolgenti, i paesaggi emotivi suggeriti dalle armonie vengono trattati in una maniera del tutto nuova, motivo per cui Weather Systems non può essere definito, a mio avviso, un disco manierista.
Il titolo è quanto mai suggestivo, e azzeccatissimo. Perché è un lavoro raffinato, moderatamente ambizioso, che sprigiona una solarità verace, lontanissima dai lavori degli anni Novanta, perché per un lungo periodo la malinconia, l’intimismo e l’introspezione in chiave melodrammatica hanno contraddistinto la musica degli Anathema. Il gruppo è maturato, e ha virato verso lidi decisamente più pop, se così vogliamo dire. L’artwork è, al solito, sublime, e basterebbe osservarlo per capire da subito con che cosa abbiamo a che fare: la natura, l’amore, la luce, l’infinito. Concetti da sempre cari agli Anathema, ma questa volta trattati con un approccio più ottimista. Tutti i brani sono un climax ascendente, si parte con arpeggi acustici per procedere con un crescendo continuo di ritmo e intensità. Si parte con Untouchable, divisa in due parti: un inno all’amore, parzialmente riuscito (a tratti eccessivamente melenso), che mostra un Vincent Cavanagh in piena forma cantare su un ritmo serrato di chitarra i versi My love will never die, my feelings will always shine. La splendida voce di Lee Douglas chiude il cerchio nella seconda parte, con una delicatezza da pelle d’oca. Si prosegue con The Gathering of the Clouds, nell’approccio abbastanza simile al pezzo precedente (l’alternanza vocale Cavanagh/Douglas prosegue in maniera sapiente), ma più incalzante, gravida di seconde voci, finalizzata ad un intro ad hoc per Lighting Song, la vera e propria gemma del disco. E dietro al microfono, una Lee Douglas senza la quale il pezzo non avrebbe lo stesso impatto. L’emotività propria del pezzo è travolgente, il tappeto sonoro che si viene a creare da archi e tastiere impetuoso, i versi semplici e pregni di significato al contempo: The world is wonderful, so beautiful, if only you can open up your mind and see. Si procede con Sunlight, un vero e proprio climax sonoro che risulta però, alla lunga, un tantino stucchevole. The Storm Before the Calm è qualcosa che, ad un primo ascolto, lascia basiti: un pezzo ricercato, longevo, saturo di elettronica, le melodie sono eleganti ma le liriche lasciano un po’ a desiderare per via di una banalità un po’ troppo reiterata. The Beginning and the End potrebbe essere definito il brano più orecchiabile e melodicamente più vicino a We’re Here Because We’re Here. Vagamente più malinconico, somiglia più a un mix di sentimenti contrastanti, la voce di Vincent lascia trasparire tutto il suo turbamento emotivo sui versi Can someone please help me? Because I cannot see, silence is raging. Il pezzo seguente, The Lost Child, è il più cupo e oscuro, l’atmosfera richiama il sogno di un bambino (alla A Natural Disaster, verrebbe da dire), ma non lascia intravedere qualcosa di luminoso, al contrario: i violini e le tastiere enfatizzano una luce che pian piano svanisce, un desiderio rimasto inappagato (My light is fading now, my heart is breaking now). Chiude il disco la splendida Internal Landscapes, strutturata allo stesso modo di Hindsight, per lo meno nei primi due minuti: una melodia fioca e delicata accompagna dei versi in sottofondo, poetici ed introspettivi, per poi lasciare spazio alla voce di Lee prima, Vincent poi, ad enfatizzare come l’amore sia il solo ed unico respiro vitale: Love is the life breath of all I see, love is true life inside me. Dunque, Weather Systems è un lavoro che lascia spazio a disquisizioni di ogni tipo, ma su un aspetto saremo tutti d’accordo: anche se di ottima fattura (non richiede un ascolto eccessivamente impegnato, ma in fin dei conti, che importa?) rimane forse troppo ambizioso sul piano emotivo, depotenziando così la cornice complessiva. Eppure, questa pare essere la via intrapresa da Cavanagh e soci negli ultimi anni, e francamente, non c’è nulla di male a mio avviso nel tentare di abbracciare una fetta di pubblico più ampia, o magari diversa. Gli Anathema hanno mantenuto fede, negli anni, alla sfera del sentimento umano, ora viene semplicemente trattata con un approccio differente. Chapeau.
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