Rock On Light part 1: Ulver - Shadows of the Sun (2007), Piccole gemme di paura

C’è un musicista, a Oslo, che negli anni ha voluto spaziare costantemente da un universo sonoro a un altro. Kristoffer Rygg, in arte Garm, fonda nel 1992 gli Ulver, uno dei gruppi più eclettici degli ultimi vent’anni, ponendosi come pietra miliare dapprima nel panorama metal più oscuro, per decidere di spostarsi poi su lidi più elettronici, fino ad arrivare ad un concetto di musica estremamente personale e difficilmente catalogabile. Shadows of the Sun, settima fatica del gruppo norvegese datata 2007, è il disco più cupo e dimesso della loro carriera, ma anche il più accessibile.

La continuità ha da sempre contraddistinto ogni lavoro dei lupi norvegesi, benché ciascun disco rappresenti una parentesi isolata almeno dal 1998. Shadows of the Sun non fa eccezione: rimane costante da capo a coda, segnando un contrasto netto col precedente Blood Inside del 2005, che voleva essere un’opera malata, intrisa di follia e sangue, al limite della camicia di forza. In Shadows of the Sun siamo di fronte a qualcosa di completamente differente: viene narrato come un fenomeno naturale, un’eclissi di sole, possa toccare le corde più profonde dell’animo umano. Quel che sorprende è la dose di pacatezza con la quale si susseguono i brani, uno dietro l’altro, portando con sé un’inquietudine crescente, un climax emotivo che si spegne nel pezzo finale, ma che lascia aperta una domanda: What happened to us here?, domanda semplice e banale, ma che porta a delle profonde riflessioni di stampo esistenziale. 
Il prologo viaggia sulle note di Eos, Garm canta con la sua voce camaleontica i versi Someone dies, someone lives… in pain con una naturalezza da pelle d’oca. All the Love è un brano lievemente più incalzante, il suono delicato delle trombe crea un’atmosfera più rassicurante, generando quello che è uno dei pezzi più riusciti del disco. We fear the things, we do not understand: l’uomo inizia a prendere consapevolezza dei suoi limiti, della sua natura effimera. A seguire, Like Music, da brividi sottopelle, soprattutto nella seconda fase, delicata e strumentale. L’ansia dell’attesa è incarnata in Vigil, forse il brano più ostico, la voce di Garm è accompagnata da un piano che rimane sempre all’erta, il turbamento emotivo si fa sempre più acceso. E proprio il brano successivo, Shadows of the Sun, rappresenta il culmine dell’eclissi. La notte è arrivata, il silenzio è soffocante. L’uomo mette da parte il suo orgoglio, la sua brama di toccare l’infinito, e prende finalmente coscienza delle sue paure, delle sue debolezze. Let the Children go è la logica conseguenza della paura: tutti si tengono per mano, timorosi dell’avvicinarsi della fine, tentando di dare delle risposte ai propri figli, risposte che non arrivano ma che danno prova dell’innocenza e della purezza dell’infanzia. Without dreams, we have nothing: l’umiltà dell’essere umano è incarnata in queste semplici ma potentissime parole. Solitude è la riuscitissima cover di un brano dei Black Sabbath: nel buio l’uomo sperimenta, per la prima volta in maniera cosciente, la solitudine. In Funebre il buio sembra davvero vincere, ogni speranza pare perduta, ma l’oscurità non dura che pochi minuti, lasciando nuovamente il posto alla luce del sole. L’umanità rimane stordita e attonita, trova finalmente il coraggio di guardarsi allo specchio e rendere conto della propria condizione, della propria esistenza, del proprio posto nel mondo. What Happened, resa terribilmente cupa dagli archi, ricorda molto il prologo di Eos, chiudendo il cerchio in una dimensione di pace e stordimento incredibilmente tangibile. Shadows of the Sun è un disco che, in appena quaranta minuti, porta gli Ulver a trattare in una maniera del tutto nuova la tematica da sempre a loro cara, quella dell’uomo. Perché stavolta la riflessione è resa palpabile al cospetto della natura. Dedicated to us all, sta scritto in copertina. Già, dedicato a tutti noi. Noi che dovremmo trovare il coraggio di riflettere su noi stessi, sulla nostra natura, sulla nostra umiltà. Perché in fin dei conti, nell’eterno sognare umano c’è posto solo per il silenzio.

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